Lo stabilisce la Cassazione che precisa i limiti degli interventi di recupero (inclusi quelli con demolizione e ricostruzione) anche dopo le Semplificazioni del Dl 76/2020
Per essere qualificati come tali gli interventi di ristrutturazione devono sempre mantenere traccia dell’edificio esistente. Anche a fronte di operazioni di demolizione e ricostruzione degli edifici originari. È la precisazione che arriva dalla Cassazione, con la sentenza n. 1669/2023 pubblicata il 18 gennaio. Un chiarimento importante (e destinato a far discutere) rispetto alle novità normative susseguitesi negli ultimi anni su questo tema, sempre con l’obiettivo di allargare il perimetro degli interventi qualificabili come ristrutturazioni rispetto alle nuove costruzioni.
Al centro della questione un intervento realizzato sulla base di un permesso di costruire rilasciato per la trasformazione di una casa colonica, costituita da due unità immobiliari e altri cinque annessi agricoli di varia tipologia, in un complesso residenziale formato da dieci villini in linea e un parcheggio a raso coperto con pannelli fotovoltaici, nella zona di Loreto (Ancona).
Il caso arriva alla Cassazione a causa del ricorso promosso dal pubblico ministero contro la decisione del Tribunale di Ancona che aveva ribaltato l’ipotesi accusatoria, annullando il sequesto dell’area, basato sulla contestazione del reato di lottizzazione abusiva.
Per decidere la contesa, la Cassazione decide di concentrare l’attenzione sulla configurabilità o meno del dell’intervento come ristrutturazione edilizia, da ultimo ampliato dal decreto Semplificazioni (Dl n.76/2020) fino a ricomprendere «gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche». Dunque con realizzazioni in larga parte difformi rispetto all’originale, a parte le zone tutelate, successivamente escluse dall’ampliamento dei confini della ristrutturazione dal cosiddetto decreto Bollette (Dl 34/2022).
Il punto è che, per la Cassazione, anche di fronte all’ampliamento della definizione di ristrutturazione previsto dal decreto Semplificazioni del 2020 «permane comunque la ratio qualificante l’intervento edilizio, che postulando la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, è comunque finalizzata al recupero del medesimo, pur con le ammesse modifiche di esso». Traducendo dal giuridichese: la Cassazione segnala che quando si parla di ristrutturazione non si può radere al suolo l’edificio per creare qualcosa di completamente diverso. «In tal senso – si legge poco dopo nella sentenza – si è espressa anche di recente la giurisprudenza amministrativa, laddove ha evidenziato che la ristrutturazione edilizia, quale intervento sul preesistente, non può fare a meno di una certa continuità con l’edificato pregresso».
Di più. Precisando i limiti entro i quali deve muoversi la definizione di ristrutturazione la Cassazione segnala la «necessità che venga conservato l’immobile preesistente, del quale deve essere comunque garantito il recupero». «Allo stesso modo – si legge sempre nella sentenza – la ristrutturazione dei manufatti crollati o demoliti è possibile al solo fine del loro “ripristino”, termine quest’ultimo dal significato univoco nella parte in cui esclude la mera demolizione a vantaggio di un edificio diverso». Inoltre, «la ristrutturazione, per definizione, non può mai prescindere dalla finalità di recupero del singolo immobile che ne costituisce l’oggetto».
Conclusione? Per la Cassazione, «pur con le ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di “ristrutturazione» l’unico modo per distinguere l’intervento di ristrutturazione da quello di nuova costruzione» è che l’operazione di recupero non può prescindere «dal conservare traccia dell’immobile preesistente». Vale a dire che: «con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente».
Conclusione destinata forse a far rumore. E che ne caso specifico si traduce in un accoglimento del ricorso del pubblico ministero e in una bocciatura della sentenza del Tribunale di Ancona che aveva deciso il dissequestro dell’area.
Per la Cassazione infatti «seppure la recente novella del 2020 abbia contribuito a delineare la possibilità di interventi di ristrutturazione fortemente innovativi rispetto all’organismo preesistente, tanto che alcuni criteri prima utilizzati dalla legge e giurisprudenza, per sancire la corrispondenza tra i due organismi interessarti appaiono via via sfumati o scomparsi (quali, in sintesi, conriferimento in particolare a zone non vincolate, la fedele ricostruzione comprensiva di limitate innovazioni, oppure, poi, la medesima sagoma /volumetria o, ancora, l’identità del sedime), permane il requisito, insuperabile, per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso». «Per cui – conclude la sentenza – , in tale quadro va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio».
(Fonte: il sole24ore.com)